auroraMeccanica: arte e funzionalità. Intervista a Carlo Riccobono
auroraMeccanica è un’azienda con sede a Torino che si occupa di installazioni audio-video e multimediali. TOradionews ha intervistato Carlo Riccobono, co-fondatore e coordinatore e direttore dello staff tecnico.
Buongiorno Carlo. Come e quando nasce auroraMeccanica?
Il tutto ha avuto origine a Pisa nel 2007, anno in cui io e Roberto Bella (l’altro socio fondatore, ndr) abbiamo fondato uno studio di produzione di audiovisivi. Due anni dopo però ci siamo trasferiti a Torino, dove abbiamo incontrato Fabio Alvino (ai tempi studente di ingegneria del cinema presso il Politecnico di Torino). È qui che è nata la vera e propria auroraMeccanica. Sentivamo l’esigenza di trasformare i nostri video in installazioni, rendendoli interattivi. Ci siamo inizialmente approcciati a questo campo da un punto di vista artistico (il nostro lavoro continuava ad essere il videomaking), arrivando anche ad esporre in qualche galleria. Verso il 2013/2014 sono poi arrivate le prime richieste da parte di mostre e musei. Ad oggi il nostro lavoro consiste quasi esclusivamente nella progettazione/produzione di installazioni interattive.
auroraMeccanica è un nome particolare: come nasce questa idea? C’è per caso lo “zampino” di Stanley Kubrick?
Visto il nostro passato da produttori di video e di cortometraggi, c’è indubbiamente un omaggio al grande regista, ma esiste anche un’altra ragione: il nostro lavoro è infatti diviso in due sfere. La prima è più raffinata e legata all’estetica, mentre la seconda è relativa ad aspetti profondamente tecnici. In auroraMeccanica questi poli – apparentemente opposti – si sposano bene.
Ognuno dei membri del vostro organico ha delle caratteristiche particolari e/o una qualche velleità artistica: che qualità ha il collaboratore ideale di auroraMeccanica?
Chi lavora con noi sicuramente non deve avere paura: è infatti fondamentale essere disposti a rischiare. Ovviamente una buona professionalità, dell’interesse culturale/artistico e molta curiosità sono fondamentali, ma sapersi “buttare” è la caratteristica imprescindibile. 15/20 anni fa, infatti, il nostro lavoro non esisteva, e quello che faremo tra altrettanti molto probabilmente non esiste ancora.
Vi definite Narrative Space Studio. Un titolo che si sposa bene con il vostro obiettivo: “creare un racconto intorno all’oggetto, per valorizzare storie, contesti e narrazioni altrimenti impossibili” (citazione tratta dal sito ufficiale). Può spiegarci meglio questa vostra mission, magari con un esempio di “narrazioni altrimenti impossibili”?
Il nostro lavoro ha tre fulcri: visitatore, spazio e narrazione. Il nostro scopo è mettere il primo al centro della narrazione (che viene effettuata dallo spazio, è l’ambiente che racconta) attraverso strumenti interattivi. Un esempio calzante può essere l’installazione multimediale realizzata in occasione degli ottant’anni delle Leggi razziali (1938-2018). Il progetto (chiamato “Che razza di Storia!” e situato presso il Polo del ‘900 a Torino, ndr) consiste in un corridoio buio. La mancanza di luce rappresenta le poche notizie concernenti l’Olocausto negli anni compresi tra il 1938 e il 1989, mentre lo spazio della stanza simboleggia il tempo: percorrendolo, lo spettatore scopre delle colonnine – rappresentanti le poche tracce disponibili – che man mano si illuminano. La difficoltà nella narrazione consisteva proprio nella scarsità di testimonianze relative alla Shoah durante quel lasso di tempo.
Vi occupate di allestimenti museali, ma non solo: sul vostro sito è infatti presente anche una sezione chiamata “ricerca artistica”: può parlarcene?
Si tratta di progetti che portiamo avanti perché ci permettono di sperimentare nella maniera più libera possibile. Gli allestimenti museali infatti hanno sempre un committente e una narrazione da rispettare: la ricerca artistica ci permette di spaziare, sia dal punto di vista formale che contenutistico.
Che tipo di tecnologie usate e di che collaboratori vi avvalete per le vostre installazioni/opere?
Collaboriamo spesso con visual/motion designer, tuttavia, fornendo progettazioni e non prodotti, quelle che noi trattiamo sono tecnologie piuttosto semplici (video “tradizionali”). Ci concentriamo infatti maggiormente sull’applicazione di questi video. Nel nostro organico sono comunque presenti dei creative coder, tra cui Fabio Alvino: informatici in grado di manipolare il flusso del video in tempo reale attraverso strumenti quali Touch Designer e Max MSP (linguaggi di programmazione visiva orientati verso la multimedialità, ndr).
Nel 2013 avete collaborato con il Politecnico di Torino ed il Castello di Rivoli; durante il 2018 con il Polo del ‘900 per la mostra “Che razza di Storia!”, di cui abbiamo parlato prima. Questi sono alcuni esempi del vostro operato su Torino: che rapporto avete con il territorio?
Nel 2009, quando ci siamo trasferiti qua a Torino, farsi notare non è stato semplice: per i primi anni abbiamo avuto infatti un migliore riscontro a Milano. Qualche tempo dopo tuttavia, dopo aver vinto i primi bandi, abbiamo cominciato a farci conoscere. Ad oggi possiamo annoverare tra i nostri collaboratori numerose strutture, enti ed una lunga serie di architetti e professionisti del territorio.
Se dovesse scegliere tra uno dei vostri lavori e classificarlo come il più soddisfacente/emblematico, quale ci proporrebbe?
Probabilmente il Museo Gianni Rodari, presso Omegna (VB). Si tratta di un progetto risalente a ottobre 2021 di cui andiamo particolarmente fieri. In primis affronta un tema molto interessante, poi è un’esposizione che abbiamo curato in quasi tutti i suoi aspetti, dall’identità visiva allo studio del percorso. Questo progetto ci ha inoltre permesso di mostrare una peculiarità del nostro impegno, ovvero la possibilità di far comunicare tra loro aspetti digitali e multimediali con strumentazioni analogiche, fisiche. Questo rispecchia bene il tipo di lavoro che intendiamo fare e la nostra mentalità: la narrazione di una storia parte infatti da un oggetto fisico, ma alla fine non è altro che un ricordo, un aspetto immateriale.
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